“LA VITICOLTURA DI QUALITA’ PASSA ATTRAVERSO UNA SERIE DI RAPPORTI ANTROPOLOGICI”
La parola a Raffaele Pagano, ammiraglio del progetto Joaquin.
La cantina Joaquin è parte del cuore pulsante della denominazione Fiano di Avellino-Taurasi.
Raffaele utilizza solo uve locali per mettere a punto le sue creazioni che diventano pezzi unici ed incarnano uno stile personale ed originale fatto di vini estremamente espressivi, etichette che parlano ed un modo di comunicare unico nel suo genere.
Confrontarsi con lui, ascoltare il suo punto di vista sul territorio, sul presente e futuro della denominazione è qualcosa che vale veramente la pena di fare.
Raffaele dove sono ubicati i tuoi vigneti e cosa contraddistingue la tua produzione?
I miei vigneti sono posizionati a Lapio e Montefalcione, in questa zona vengono prodotti il “Piante a Lapio (da uve Fiano, Campania IGT) ed il vino della Stella (Fiano di Avellino DOCG). Inoltre produco a Capri (Joaquin dall’Isola Campania Bianco IGT), ed ho prodotto Taurasi (Riserva della Società DOCG) da un ettaro di vigne centenarie in zona Paternopoli ed un Aglianico”I Viaggiatori” in varie edizioni.
La regola è che non ci devono essere ripetizioni imposte. Bisogna onorare le annate, per esempio nel 2016 “Piante a Lapio” non è uscito e le uve sono confluite nel “Vino della Stella”. Inoltre le mie etichette sono arricchite da codici che forniscono informazioni. Per esempio nel Vino della Stella 2016 c’è l’iscrizione “Serie L” che significa che ci sono in parte le uve del Piante a Lapio, che non è stato prodotto.
Questa è la caratteristica del nostro lavoro, quello che facciamo di anno in anno lo dichiariamo in etichetta nelle note esplicative, perché parte così il progetto.
È come essere in pasticceria, voglio poter assaggiare di tutto, l’Irpinia è come una pasticceria, grazie alla sua varietà. Infatti ogni 3 km ci sono condizioni diverse, suoli e micro climi. Ogni denominazione (inteso come comune all’interno della denominazione) rappresenta un progetto di zonazione.
Gli areali che prendo in considerazione sono solo Fiano di Avellino e Taurasi. Ho promesso che non produrrò mai un Greco di Tufo DOCG per una questione di stile, perché la viticoltura di qualità, la parte agricola è fatta di rapporti.
Io devo conoscere il nome della persona di Tufo che lavora in campagna, devo vivere il villaggio nel senso francese del termine, se sto in area Fiano non posso viverlo.
Volendo potrei produrre un Greco di Tufo, ma non lo faccio perché mi sembrerebbe un’usurpazione. Infatti le uniche annate dove ho prodotto vino da uve Greco (110 Oyster 2008, 2013 e 110 Ostrica Bis Orange 2014) sono state prodotte con IGT Campania.
Perché fare il Greco di Tufo lo considero proprio un altro mestiere. Non essendo di zona mi piace avere più libertà interpretativa, macerazioni sulle bucce piuttosto che uso di legni diversi.
Per capire a fondo le sottozone del Fiano ci vuole una vita, immaginiamoci se si può fare un bel lavoro saltando da una “appellation” ad un’altra.
Lo stesso discorso vale per chi il vino lo scrive e lo giudica. Vorrei vederli al bar di Lapio a parlare con le persone, altrimenti non stiamo parlando la stessa lingua. Io non vado a prendere il caffè a Tufo, la viticoltura di qualità passa “attraverso una serie di rapporti antropologici”.
Hai accennato al concetto di zonazione, cosa è possibile scrivere in etichetta al momento per avvicinare virtualmente il consumatore all’Irpinia?
A Lapio sta venendo fuori la zonazione grazie anche al lavoro di altri produttori. Vinificare dai vigneti lasciati dai nonni ecc. Il passaggio del testimone crea uno storico che può essere studiato, che fa esperienza.
Se decidi di vinificare da una sottozona in particolare, la continuità è importante per capire cosa succede.
E’ un lavoro fatto per le future generazioni. Nessuno si sogna di andare a prendere uve da un’altra zona, mai e poi mai potrei pensare di andare a vinificare a Montefredane e Summonte. E’ un altro mestiere.
Io rivendico in etichetta il posto (Piante a Lapio) ed è fondamentale perché metti in etichetta il villaggio inteso come dimora delle piante. Sarebbe bello che diventi una cosa ufficiale, io ho messo a disposizione questo nome affinchè qualche comitato lo possa prendere in considerazione come menzione geografica.
Quali sono le difficoltà pratiche per la parcellizzazione, a parte quelle burocratiche?
Ti serve tanto spazio e tempo. Soprattutto spazio, è come la storia della ristorazione di lusso con 20 chef in cucina, ognuno con la sua zona ed il suo spazio, e quattro tavoli fuori.
Per fare la qualità un ettaro di vigna deve andare in una vasca da 30 quintali, hai bisogno di tanto spazio a terra, la cantina di produzione ed affinamento devono essere grandi egualmente perché anche l’affinamento è importante, se il vino è pronto o meno lo decide il padre eterno mica l’architetto che ti ha disegnato la cantina.
Cosa ti piacerebbe che comunicassero i tuoi ambasciatori ai tuoi consumatori?
I sommelier e gli agenti sono gli ambasciatori quindi è giusto ogni tanto farsi una chiacchierata per capire cosa c’è di nuovo, è lo stesso scambio di cui parlavamo prima, di fronte al bar di Lapio.
Inoltre in epoca corrente, il consumatore non ha voglia di un effluvio di informazioni, il produttore deve fare di tutto per creare un prodotto impeccabile, e l’intermediario lo deve comunicare in modo serio ed efficiente, per esempio parlando di territorio, ma senza troppe chiacchiere.
Negli anni 80 esisteva la “cucina del mettere” come la chiamava Luigi Cremona, dove l’operatore parlava mezz’ora. Ora non è più così, si parla di materia prima e di origine.
Qual è un prodotto della tua collezione a cui sei affezionato?
Tutti i figli sono uguali, io non conservo bottiglie in cantina, non ho annate vecchie. Per me tutte le bottiglie devono fare la loro strada, poi mi piace recuperarle e godermele quando avranno fatto i loro km.
Attualmente sono concentrato sul “Piante a Lapio” che rappresenta il mio progetto più ambizioso. È un cul de sac incredibile, un Fiano che sta nell’alta gamma, la roba più invendibile, perché far passare il messaggio che esistano grandi bianchi italiani non Chardonnay piemontesi per me è il punto d’arrivo.
Il progetto di Piante a Lapio sta andando bene, sono anche stato contattato da un broker da parte di un collezionista che voleva l’annata 2012. Attualmente siamo alla 3 prodotta, la prima vendemmia è stata la 2011, l’ultima imbottigliata nel 2018 è la 2013, ora ho messo la 2018 in botte.
Sono particolarmente legato anche ad un aglianico vinificato in bianco, mai più rifatto, “I Viaggi 2006”, ad Oyster 2008, giudicato come miglior bianco prodotto finora. Un altro vino intoccabile per me è la magnum 2009 del vino di Capri (Joaquin dall’Isola).
Uno dei vini della costiera Amalfitana non Chardonnay però sta avendo successo come grande vino bianco Italiano, che ne pensi?
La filiera è perfetta, tutto è perfetto, niente da dire. L’alice di Cetara però ha bisogno di spessore e verità. Quando producemmo il primo vino a Capri, cercammo in tutti i modi di evitare l’effetto gadget turistico e fummo contenti di scoprire che il nostro vino si avvicinava ai profumi del vino dei contadini locali.
Tornando al Fiano DOCG, come la metti tra lo stile del vino ed il disciplinare?
Mi ricordo il patema d’animo della prima vendemmia (2009) dove macerammo e ci rientrammo per poco come colorazione quando la camera di commercio prelevò i campioni. Noi parlavamo di macerazione, di stile, eravamo dei “mohicani”!
Invece i Fiano non Irpini, cosa bolle in pentola?
So di un esperimento di buon livello fatto dalla cantina Le Ragnaie di Montalcino che ha piantato Fiano in alto dove non si poteva mettere il Sangiovese da Brunello e anche a Bolgheri ad opera di Michele Satta. Ho assaggiato grandi cose dall’Australia.
Quali sono i tuoi progetti e cosa ti auguri ci regali il futuro?
Ho in mente un progetto b&b per gli amanti del vino, che si è quasi materializzato. Inoltre mi fa piacere che molti produttori che sono stati protagonisti di viticultura di ritorno, che erano all’estero e sono tornati a produrre, hanno mandato i figli alle facoltà di enologia, così la zona ne guadagna e si arricchisce sempre di più dal punto di vista scientifico.