Esiste un vitigno che negli ultimi anni ha conquistato una buona fetta di mercato: il Pecorino. Oscurato dalla notorietà del Verdicchio e del Trebbiano D’Abruzzo, non ha avuto – soprattutto all’inizio della sua ascesa – la strada spianata.
Attribuire la paternità di questo vitigno sicuramente non è facile, da bravo ascolano dovrei dire: “Noi abbiamo la DOCG!” ma chi conosce il vino sa perfettamente quanto la denominazione possa essere fuorviante o, come è accaduto in passato, assegnata per motivi poco legati ad un discorso di qualità ed origine ma piuttosto politici.
Il primo documento ufficiale in cui appare risale al 1526 ed è contenuto negli statuti di Norcia (PG), bisogna notare però che in quel periodo il confine giuridico di Norcia si estendeva fino ad Arquata del Tronto.
Successivamente, nel 1876, dopo uno studio ampelografico, il Ministero dell’agricoltura, industria e commercio, rende noto che è un’uva a bacca bianca coltivata principalmente nelle province di: Pesaro, Ancona, Macerata, Teramo ed Ascoli Piceno. Proprio in quest’ultima è maggiormente diffuso, non a caso si trova sulla tabella della provincia dove sono riportate tutte le cultivar.
Usato principalmente come uva da taglio, arrivò quasi a scomparire nel XX secolo fino alla riscoperta nel 1984 di alcune piante prefillosseriche in provincia di Ascoli Piceno, specificatamente nei dintorni di quello che una volta era il paese chiamato Pescara del Tronto tristemente raso al suolo nel terremoto del 2016.
Tra le varie ipotesi in merito alla provenienza del suo nome, la più accreditata pare essere derivata dall’usanza delle pecore di cibarsi degli acini.
La sua rinascita fu opera del “maestro” Teodoro Bugari, storico fondatore AIS, relatore e scrittore. La storia narra che un suo corsista lo convinse ad assaggiare il vino che produceva, il classico “vino del contadino”.
Teodoro ne rimase folgorato ed iniziò un profondo studio di ampelografia consultando vecchi testi in cerca di nozioni riguardanti questo vitigno quasi sconosciuto, poi con l’aiuto di Guido Cocci Grifoni proprietario dell’omonima cantina, del suo enologo e del professor Leonardo Seghetti, iniziarono gli esperimenti di vinificazione.
Nonostante l’eccellente qualità del vitigno la strada per l’imbottigliamento fu articolata perché il pecorino è un vitigno delicato, teme il sole e tende a “scottarsi” facilmente, non a caso è un vitigno che predilige altitudini discrete.
Fortunatamente, dopo diversi tentativi arrivarono con la prima produzione ufficiale targata 1990, la DOCG è arrivata esattamente 21 anni dopo sancendo che chi producesse al di fuori di essa, dovesse imbottigliare come Falerio Pecorino DOC.
Quindi, nonostante nel passato il vitigno fosse diffuso nelle regioni del centro Italia, ufficialmente il vino Pecorino è nato ad Ascoli Piceno.
In Abruzzo arrivò successivamente; fu “importato” e reintrodotto da un ascolano che, a causa di questo regalo, fu ampiamente biasimato.
Personalmente trovo inutili le critiche a riguardo perché devono essere terroir e abilità in vigna a fare la differenza e non un mero principio di protezionismo.
Negli ultimi anni ha raggiunto uno standard qualitativo molto elevato e di conseguenza trovare vini banali o mediocri è un’impresa ardua.
Si è soliti definire il vino Pecorino “un bianco vestito di rosso” per la sua struttura e capacità di invecchiamento. Vitigno poliedrico sa adattarsi, senza divenirne succube, a diverse tecniche di vinificazione. La moderna enologia lo sta portando sempre di più ad assumere caratteristiche gastronomiche ed i consumi al tavolo sono in grande incremento.
Attualmente, ad esempio, alcune aziende stanno sperimentando la macerazione sulle bucce: il “Guido Cocci Grifoni” della già cititata cantina le cui uve provengono direttamente dal vigneto madre del pecorino ed il “Mvria” di Simone Capecci che, con la tecnica del cappello sommerso, imbottiglia separatamente il “sopra” ed il “sotto” le bucce.
Per quanto riguarda altre “voci fuori dal coro” ed il passaggio in legno troviamo: il “Rêve” della cantina Velenosi, “Io sono Gaia non sono Lucrezia” di Le Caniette, il Pecorino di Giacomo Centanni, il “Fiobbo” di Aurora, il “Giulia Erminia” di Fiorano solo per citarne alcuni, ma anche il “Mida” metodo classico pas dosé di Allevi Maria Letizia . In Abruzzo, per quanto riguarda un passaggio in legno, troviamo invece: lo splendido “Centovie” di Umani Ronchi, il “Fosso Cancelli” di Chiara Ciavolich, il “Fonte cupa” di Camillo Montori, quello in anfora di Francesco Cirelli. Concludo tornando nelle Marche con quello che, in breve tempo, è diventato uno dei miei vini del cuore: “Falchetti” di San Michele a Ripa.