Se è vero il detto che recita: “dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna” si potrà allora tranquillamente affermare che: “dietro ad un grande vino ci sono sempre un grande uomo e/o una grande donna”. Possiamo parlare di terroir, clima, vigneto etc… ma ci sarà sempre la mano, l’interpretazione e l’intuizione di qualcuno. Quando si parla di vini estremi si fa riferimento alla voglia di sperimentare, l’esempio più noto a tutti è la viticultura “eroica” svolta in aree dove i pendii rendono difficile qualsiasi operazione in vigna. In casi più particolari si tende a testare come l’affinamento in ambienti peculiari influenzi le caratteristiche del vino, basti pensare alle bottiglie di spumante poste nei fondali marini o alle botti nelle profondità di una grotta.
Ho conosciuto Bruno Carpitella e la sua compagna Lorena Lucidi nel 2012, in quel periodo lavoravo in un locale al centro della mia città e nonostante abitassero in un’altra regione, erano clienti fissi ed abituali. La nostra passione per il buon cibo e il buon vino, oltre a farci diventare grandi amici, ci ha spesso portati a condurre lunghe chiacchierate in merito e fu proprio durante una di queste che Bruno nominò i “Vini d’Altura”. “Sai – disse – è da qualche tempo che ogni anno, tra ottobre e novembre, prima che arrivi il grande freddo, trasporto alcune bottiglie di vino sulle montagne dell’Appennino, a una quota di circa 2000m. Le lascio riposare sotto la neve per tutto l’inverno e quando arrivano i primi caldi e la neve fonde le riporto giù… sai che bombe che diventano!”.
Da bravo sommelier, curioso ma diffidente, gli dissi che sembrava un progetto interessante ma mi parve veramente strano che un vino potesse migliorare in quelle condizioni così estreme. Mi spiegò che questa tecnica, perfezionata negli anni, si ispirava ad un’usanza che aveva osservato e ripreso da alcuni pastori incontrati da ragazzo durante un trekking nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Passarono alcuni anni prima che decidessi di assaggiarne uno. Il punto di svolta arriva grazie al sostegno di alcune aziende abruzzesi, guidate dalla cantina Biagi di Colonnella e dall’entusiasmo del proprietario, che permettono di trasformare un semplice esperimento personale in un vero e proprio progetto imprenditoriale e di indagine enologica. Era Aprile 2017, partiamo per un percorso in montagna, il primo ed il più semplice di una lunga serie; caricate le bottiglie fornite dalle cantine come termine di paragone, zaini in spalla, ci dirigiamo verso un rifugio in quota dove trovammo, sotto un sottile strato di neve e ghiaccio, le bottiglie lasciate l’autunno precedente.
Una volta seduti al tavolo, il panel ebbe inizio: prima i vini “canonici”, due bianchi fermi e un metodo Charmat. La Passerina si era “seduta” ed aveva intrapreso il suo inesorabile percorso verso la vecchiaia; d’altronde è un vino poco adatto ad essere bevuto dopo 2 anni. Il Pecorino invece, più strutturato ed acido, si era giustamente ammorbidito ed aveva sviluppato un bouquet aromatico più ampio. Per quanto riguarda il Trebbiano d’Abruzzo spumante, non millesimato, mi trovai di fronte ad una bottiglia molto gradevole ma nel quale nessuna caratteristica spiccava in maniera particolare. Passammo poi alla versione d’Altura. Il colore di tutti i vini era già molto differente: cristallino, vivo e tendenzialmente più verde. Una volta portati i bicchieri al naso un’espressione di stupore si dipinse sul mio volto, mi guardai attorno e l’espressione sul volto di chi il vino l’aveva fatto era la medesima. Il filo conduttore era chiaro: questa sensazione fumè, di roccia bagnata, faceva da apripista ad un’esplosione di profumi floreali, fruttati e di erbe aromatiche nei due bianchi fermi. Lo spumante invece dimostrò di aver assottigliato il suo perlage ed un carattere che per alcuni versi (Dioniso mi punirà per questa affermazione) ricordava un metodo classico da Pinot Noir. In bocca tutti e tre si dimostrarono estremamente dinamici, scattanti e freschi sulla lingua, con una sapidità da manuale e un ritorno minerale straordinario. Lunghissimi. Incredibilmente i vini sembravano ringiovaniti al palato, quasi fossero appena usciti dalla cantina, con un bouquet aromatico estremamente più accattivante.
Da quel momento il progetto Vini d’Altura, oltre ad aver dimostrato a tutti i partecipanti dei vari panel e successive degustazioni, di poggiare su solide basi scientifiche – tuttora in corso di studio – si avvale del patrocinio del Parco Nazionale del Gran Sasso (che ospita le cantine mobili destinate all’affinamento) ed ha raggiunto quest’anno la produzione di circa 2000 bottiglie. Attualmente, oltre ai vini abruzzesi (Pecorino IGT, Trebbiano DOC, Cerasuolo DOC, Montepulciano DOC e Spumante Brut), già acquistabili, si affianca una selezione di 70 vini in test, provenienti da 30 cantine nazionali; i migliori prodotti della sperimentazione andranno a costituire il catalogo di Vini d’Altura dell’anno successivo.
Uno degli aspetti di questo progetto che più mi ha affascinato è come il processo si compia in modo del tutto naturale. Come sottolinea Bruno Carpitella, il complesso insieme di condizioni ambientali (temperatura, pressione atmosferica, purezza dell’aria, rarefazione dell’ossigeno e non ultimo il contatto diretto con la neve e le rocce calcaree), porta la nostra attenzione sulle tematiche ambientali, sulle drammatiche conseguenze che i cambiamenti climatici stanno causando in tutti gli aspetti della nostra vita. Per non parlare di quanto l’aumento delle temperature medie e dei pattern di precipitazione stiano modificando irrimediabilmente la qualità ed il gusto del vino a livello mondiale.
I Vini d’Altura sono anche un invito ad avvicinarsi sempre di più ad una filosofia green ed eco-sostenibile.
P.S.
Come ogni anno le bottiglie in quota non sono al corrente di ciò che accade quaggiù, ed è incredibile pensare che non abbiano la benché minima idea che in questo periodo il resto del mondo sia in quarantena.