La storia del vino giapponese è piuttosto recente; il Giappone non è menzionato – almeno per ora – tra gli enfant prodige della viticoltura internazionale e le cause sono molteplici.
La tradizione nipponica è molto legata al consumo di birra, sakè e shochu e questo non ha mai permesso al vino di emergere. Per anni i giapponesi hanno prodotto una bevanda chiamandola impropriamente vino (che in Italia sarebbe ai limiti della legalità) dovendo fare i conti, tra l’altro, con mille insidie burocratiche.
Infatti, verso la fine del XIX secolo, si produceva una bevanda aromatizzata spesso fortificata e con aggiunta di zucchero proveniente dalla spremitura e fermentazione di uva da tavola. Veniva utilizzato lo scarto dei grappoli prodotti e rimasti invenduti. Non avendo all’epoca conoscenze approfondite in materia, i produttori giapponesi ignoravano il fatto di dover piantare vite da vino.
Un altro fattore che ha contribuito all’inibizione della crescita del settore vitivinicolo è stata la credenza che il clima giapponese, sebbene piuttosto variegato, non fosse funzionale alle esigenze della vite.
Le piogge sono frequenti e l’umidità è piuttosto rilevante. Nei giorni attuali, con il clima globale in netto cambiamento e la totale imprevedibilità piombata anche sulle culture più radicate come quella europea, l’entusiasmo nei confronti della produzione del vino si è acceso e il numero dei vigneron giapponesi è in netta crescita.
Ormai le conoscenze in materia di gestione climatica sono così evolute che alcuni giovani produttori, in particolare quelli formatisi in Francia, hanno deciso di accettare la sfida e di destreggiarsi con le avversità stagionali del loro paese. Alcuni produttori, come ad esempio Hirotake Ooka, sarebbero pronti a sperimentare serre per smarcare le piogge durante il periodo della maturazione.
Ultimamente il governo giapponese ha emanato leggi più elastiche per permettere la produzione di vino anche ad aziende di dimensioni più piccole. In passato la licenza veniva rilasciata solo per chi era in grado di produrre un minimo di 6.000 litri di vino, rendendo possibile la capacità di penetrare il mercato solo a una ridotta cerchia e tagliando così fuori i micro-produttori.
I vigneti giapponesi più antichi sono coltivati con l’allevamento a pergola ma si sta virando verso altri sistemi più ordinati in stile europeo per agevolare la qualità. Le migliori espressioni di viticoltura giapponese si possono trovare nella zona di Yamanashi, sulle pendici del monte Fuji ed Hokkaido, isola del nord dove il clima è molto teso durante l’inverno.
La diffusione della cucina occidentale e le conoscenze mediche in merito ai polifenoli hanno dato una spinta alla popolazione giapponese per cominciare a credere nel vino verso la fine degli anni ‘90.
Inoltre, il disastro nucleare di Fukushima ed il terribile tsunami del 2011 hanno svolto un ruolo molto importante per accrescere la motivazione dei giovani imprenditori giapponesi ad avvicinarsi all’agricoltura e talvolta alla viticoltura. Il fattore psicologico è stato davvero determinante, si è sentita l’esigenza di abbracciare la bellezza della natura e di apprezzarne i frutti.
La qualità del vino giapponese si sta cominciando a consacrare anche grazie all’introduzione della denominazione “Nihon Wain” che, dal 2015, tutela il vino prodotto interamente in Giappone da uve locali e i risultati cominciano a vedersi anche a livello internazionale.
Sebbene il consumo medio di vino nella popolazione giapponese sia stimato a 3,5 lt l’anno pro capite, il Giappone rappresenta la destinazione numero uno dell’export italiano in oriente, nonostante l’Italia cerchi di fare breccia nella ben più reticente Cina.
Alcuni vini Giapponesi come il Koshu di Grace Wine sono stati premiati col massimo riconoscimento ai Decanter Asia Wine Awards dalla rivista Decanter.
Se i cavalli si vedono all’arrivo, non resta che aspettare per vedere se i vignaioli giapponesi, alcuni dei quali non neofiti in materia commerciale nonché proprietari di alcuni Château bordolesi, riusciranno a ritagliarsi una menzione nei ristoranti Europei di spicco e saranno convincenti al cospetto dei navigatissimi consumatori occidentali.