Quando si parla di Grenache subito la mente ci porta in viaggio lungo le sponde francesi del Rodano, nella parte più meridionale, zona rinomata da secoli per il suo Chateauneuf-du-Pape.
La vite qui si coltivava già nel periodo gallo-romanico ma fu grazie allo spostamento della residenza di papa Giovanni XXII, intorno al 1300 dc, che si iniziò a studiare il territorio e produrre del vino di qualità. Non a caso infatti, intorno al XVIII secolo, una parte di questo vino si portava a Bordeaux per migliorare i bled dei Cru più noti.
Questa è l’AOC più estesa lungo la valle del Rodano e con il tenore alcolico medio più elevato.
Siamo su un altopiano di circa 130 metri slm dove sole e vento non mancano, queste condizioni climatiche unite ad un terreno ricco di “galets” (sassi), se da un lato aumentano il rischio di un’elevata siccità, dall’altro, sono ideali contro la formazione di muffe e per la piena maturazione di questo vitigno.
A questo punto il parallelismo con il terroir del Cannonau, stesso biotipo, è d’obbligo: cresce a sua volta in zone calde, aride, scistoso-ghiaiose e con terreni preferibilmente a PH acido.
Generalmente la Grenache non viene vinificata in purezza ma in bled con altri vitigni, fino a 13 varietà differenti come permesso anche nel disciplinare, di cui i più utilizzati sono la Syrah e il Mourvèdre.
Questo vitigno è molto diffuso anche in Spagna (Garnacha), in Italia lo troviamo non solo in Sardegna sotto il nome di Cannonau, ma anche sul Trasimeno (Gamay perugino) e in Veneto (Tai Rosso).
Quello che si è scoperto nel 2000 è che la varietà detta Bordò nelle Marche, così chiamato non come simil plagio del vino francese ma come evoluzione della parola sarda Burda (vite bastarda/trovatella), in realtà appartiene anch’essa allo stesso biotipo.
In quel periodo, dopo attente analisi, si trovò una vecchia vigna ancora a piede franco da cui si ricavarono delle marze da cui poter iniziare a produrre qualche bottiglia.
Attualmente le cantine che lo coltivano sono solo 7, la più famosa, nonchè una di quelle che l’ha portato alla ribalta, è: “Oasi degli angeli” che riesce ad immetere sul mercato non più di 500 bottiglie per annata, chi ha la fortuna di assaggiarle si rende subito conto dell’elevata qualità del vino.
Sicuramente qui i vigneti non godranno di tutte le ore di sole che potremmo trovare in Francia, Spagna o semplicemente in Sardegna, ma terreni di stampo argilloso e tendenzialmente medio-sciolti in aggiunta al contributo delle brezze, provenienti dal vicino mare Adriatico, riescono a garantire la perfetta maturazione degli acini.
I Bordò marchigiani sono tutti in purezza e oltretutto si distiguono dai fratelli francesi per un naso meno speziato e rotondo, forse complice la mancanza della Syrah, e più legato a note fruttate molto scure, terrose, balsamiche e tostate.
Al palato entrano rettangolari, dirompenti, vigorosi, energici, quasi masticabili. Un corpo stupefacente dinamizzato da una freschezza esemplare, tannini poderosi armonizzati da una morbidezza glicemica tipica di questo vitigno dall’alto contenuto zuccherino, chiudono sapidi con richiami di frutto e tostatura. Meno femminili di quelli d’oltralpe, ma entrambi accomunati da una persistenza strepitosa e longevità esemplare.
Sicuramente non vantano una tradizione enologica secolare come quella dello Chateauneuf-du-Pape ma negli ultimi 20 anni, anche grazie allo sforzo delle cantine stesse, hanno avuto modo di dimostrare la loro indiscussa qualità scalando poco a poco le varie classifiche.
Attualmente se dovessi scegliere un vino da conservare gelosamente in cantina nell’attesa che il tempo gli permetta di compiere il suo percorso evolutivo, sicuramente, mi orienterei su un Bordò marchigiano.
Il valore economico, probabilmente, non salirà nel tempo come spesso accade con le bottiglie più blasonate, difficilmente verrà premiato come miglior vino al mondo dalle riviste specializzate (vedi Clos Des Papes 2005), ma la costanza qualitativa delle annate unita al fascino di un terroir che è ancora tutto da scoprire non hanno prezzo.